Potere e sesso nella realtà e al cinema con “Nome di donna”
11 Marzo 2018
(Donatella Nesti) Livorno, 11 marzo. Uno dei più grandi scandali nel mondo del cinema, quello che ha travolto il grande produttore Harvey Weinstein accusato da decine di attrici, modelle e impiegate di abusi, stupri e molestie sessuali, si è trasformato in una grande riflessione collettiva sul rapporto ossessivo tra il potere e il sesso con iniziative che hanno visto protagoniste le star di Hollywood con denunce, manifestazioni e il movimento#MeToo, mentre si aspetta l’esito dell’indagine sul produttore con lo spauracchio del carcere.
Nella terza rete PresaDiretta ha raccolto storie inedite e testimonianze esclusive su importanti fatti di cronaca, nel mondo del cinema e non solo perché gli abusi e le molestie attraversano tutti i luoghi di lavoro. Secondo l’Istat, in Italia le donne tra i 14 e i 65 anni che hanno subito delle molestie sessuali nel corso della loro vita sono quasi 9 milioni. 4 donne su 10. Le molestie avvengono soprattutto sul luogo di lavoro e quasi sempre si trasformano in ricatto sessuale. Un milione e 173mila donne sono state ricattate sessualmente per ottenere un’assunzione, per mantenere il posto, per ottenere avanzamenti di carriera. Mentre la cronaca ci fornisce ogni giorno drammatici fatti di violenza fisica e psicologica contro le donne, al cinema è uscito il film di Marco Tullio Giordana “Nome di donna” che tratta l’argomento con la storia di Nina, Cristiana Capotondi (nella foto), che si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia, dove trova lavoro in una residenza per anziani facoltosi. Un mondo elegante, quasi fiabesco. Che cela però un segreto scomodo e torbido. Quando Nina lo scoprirà, sarà costretta a misurarsi con le sue colleghe, italiane e straniere, per affrontare il dirigente della struttura, Marco Maria Torri (Valerio Binasco) in un’appassionata battaglia per far valere i suoi diritti e la sua dignità. “Nome di donna” è nato tre anni fa dal desiderio di guardare alla condizione femminile nel mondo del lavoro, escludendo le discriminazioni più macroscopiche – come la disparità salariale – per studiare invece quelle più sottili – e dunque subdole – assunte come una sorta di (sotto)cultura diffusa”. Ha dichiarato il regista: “Quel senso comune, quell’ovvietà, capace di insinuarsi nel quotidiano, di diventare parte integrante del modo di vivere e di lavorare, di rapportarsi agli altri. Credo che ogni donna possa comprendere esattamente queste parole, e – per fortuna – anche molti uomini. Mi sembrava importante uscire dai massimi sistemi, dalle ideologie dai ragionamenti teorici, ed entrare invece nella vita di tutti i giorni, nelle storie di una quotidianità femminile straordinariamente complessa, figlia di questo tempo in cui la fragilità economica e la precarietà del lavoro hanno inevitabilmente alzato il livello del bisogno e abbassato quello delle pretese. O meglio: dei diritti. Con Nome di donna, ho cercato di dare vita a un personaggio che potesse uscire da quell’esercito relegato nel limbo del silenzio e di raccontare una storia che restituisse almeno in parte la complessità e il dolore, rappresentato dalla molestia, anche quando si agisce e la volontà di affrontarla anziché subirla. La volontà di non sottostare all’abuso di potere. Di non accettare il ruolo di vittima predestinata. Di ribellarsi”
Il film scritto da Cristiana Mainardi e diretto da un regista da sempre coraggioso ha forse il difetto di non approfondire l’argomento che scorre via velocemente nella seconda parte con ‘ellissi’ che sembrano più adatte ad uno sceneggiato televisivo che al grande schermo ma è da sottolineare la bravura di tutti gli interpreti e le sfumature che la sceneggiatura ha saputo dare alle donne, ognuna delle quali reagisce in modo diverso agli approcci del direttore, così come avviene non solo nel cinema ma nella realtà e nel mondo del lavoro dove il potere è purtroppo saldamente in mano maschile.
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