Piero Mochi e i suoi pesci
26 Luglio 2018
(Massimo Masiero) Livorno, 26 luglio 2018. Metti una sera d’estate all’interno delle navate e dei bastioni possenti della Fortezza Vecchia di Antonio Sangallo affacciata sul mare per difendere Livorno dalle incursioni corsare e dalle navi nemiche dei Medici. Sotto le volte arancioni e negli antichi locali, le dodici installazioni degli artisti del gruppo LavorareCamminare (Manlio Allegri, Sergio Cantini, Fabrizio Giorgi, I Santini del Prete, Piero Mochi, Paolo Netto, Bruno Sullo) prendono luce dall’esterno e dall’interno. Contaminano le mura cinquecentesche e comunicano sensazioni e stati d’animo.
E’ Piero Mochi, livornese doc, Accademia Trossi Uberti, che ci accompagna e racconta la presenza di questo manipolo di artisti coraggiosi, che hanno osato sfidare le severe linee architettoniche del fortilizio contaminandole con le loro opere, che l’Autorità Portuale ha fatto esporre fino al 23 settembre. Arte contemporanea e antiche pietre sono state unite nella rappresentazione di una nuova prospettiva di vita. E tra questi i pesci, nuovi incontri e scoperte di Piero Mochi: un inno alla vita, dopo lo schiaffo subito tanti anni fa, che gli rese difficile l’uso della parte destra del corpo e che il primario dell’ospedale fiorentino di Careggi, dove era ricoverato, saputo che era anche un pittore, gli affidò per la riabilitazione l’obbligo di dipingere sulla tela con la mano destra. Tempo e anni passati ormai. Lui, che con l’impiego alle poste, si era sempre trastullato, si fa per dire, con i macchiaioli e con il figurativo, scoprì la nuova vena. Era il 1969. E si accostò ai colori accesi, al figurativo moderno, a nuove mostre. Nel 1966, era stato fondatore, con Umberto Allori, Roberto Saviozzi e Bonsignori, del gruppo Attias, che prese il nome dalla piazza cui si affacciava lo studio all’ultimo piano del palazzo Santa Elisabetta, che in quegli anni contrassegnò la pittura livornese e si fece conoscere in Italia. Tempi di gioventù, che corsero via veloci. Poi dal 1984, la decisione di percorrere altre strade, dopo diciotto anni insieme, il gruppo si sciolse, ma loro continuarono nelle loro storie artistiche, in salita e in discesa per vicoli e viali, che li hanno fatti conoscere e si sono affermati.
Mochi ha fatto del suo: nel 1972 personali a Bottega d’arte a Livorno, nel 1974 a Porto Ercole, nel 1975 a Piombino, intervallate da collettive e installazioni in giro per l’Italia, a Roma, La Spezia, Foggia, Pontedera, e le sue passeggiate nell’arte, organizzate per anni nella sua Farm, in collina, al Limoncino, vero appuntamento d’inizio estate, dove artisti e amici si ritrovavano e portavano loro opere, installazioni, performance in percorsi creativi e di sfida alla natura e al paesaggio circostante. Ancora quattro rassegna nel 2016, altrettante nel 2018.
Racconta: “Negli anni precedenti mi dedicavo al figurativo sociale: lavoro, casa, industrie, fabbriche. Segni di sfogo, colori accesi, che raccontavano momenti della vita. In seguito sono passato al figurativo moderno, ma non sono uscito all’esterno, non ho mostrato, per dieci anni sono rimasto solo a creare per me”. Poi i pesci, quelli in mostra alla Fortezza Vecchi e gli altri che popolano il suo studio e che sono diventati il motivo della sua voglia di vivere e di creare. “Nacquero dopo la malattia. Mi trovavo sulla spiaggia del Calambrone, attirarono la mia curiosità e attenzione tanti legni, portati sul bagnasciuga dalla risacca, dal largo. Il porto era vicino. Tavole grandi e piccole, corrose dalla salsedine, scheggiate. Forse erano state cassette, contenitori, o altro. Conservavano i loro colori quasi intatti, ultimo segno di una vita che pareva non averli ancora abbandonati. Quante miglia percorse in mare, chissà da che remote provenienze e che storia. Fu così che le raccolsi e le trasformai in pesci, opere strane eppur vivaci. Un amico le espose a Villa Sansoni. Era appena iniziato il duemila”. La produzione proseguì. Bruno Sullo, amico artista, lo incoraggiò. Nacque in quegli anni il gruppo “Lavorare Camminare”. Dai versi di una canzone di Piero Ciampi. Erano anche gli anni delle mostre a tema.
Nel cortile di guardia della Fortezza Vecchia svolazzano allegri dieci pesci multicolori, di resina, un metro e più, inno alla vita, una visione di gioia nella rigida immobilità delle pareti, mossi dalle folate di vento, che s’infilano tra le volte e i colonnati esagonali a cui sono appesi. Al mattino splendono illuminati dal sole, la sera occhieggiano abbandonandosi alle luci soffuse del tramonto.
Si sale fino all’ingresso del Terrapieno dei Grani ed ecco, al piano alto, apparire altri dodici pesci trattenuti alle pareti dalle reti dei pescatori. Imbrigliati, non rinunciano a mostrare le loro fattezze strane e i colori appena scalfiti dal salmastro. Orrendi, ma affascinanti, taglienti, ma solidi nelle nuove figure, create dalla mano esperta dell’artista. Tavolette e tavolacci corrosi dalla salsedine che hanno ripreso forma e vitalità in quel fortilizio e nella attività quotidiana. Nuove espressioni che Piero Mochi ripropone con il legno povero e ripudiato, ma che lui trasforma in oggetti per nuovi messaggi artistici. masierolivorno@gmail.com
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