Torna il Pci, molto più di un simbolo
23 Agosto 2020
(Patrizio Andreoli) Livorno, 23 agosto 2020 – Dopo trent’anni, il simbolo del Partito Comunista Italiano torna sulla scheda elettorale nelle elezioni regionali della Toscana. Trent’anni di ripensamento a sinistra della sinistra, di diaspore, di divisioni, di ripiegamenti e abbandoni ma anche di tentativi di ricostruzione di una prospettiva e strategia di trasformazione a più riprese frontalmente investite dal peso di profondi mutamenti culturali e dall’onda lunga ed opaca di una devastazione sociale che ha ridisegnato rapporti di classe, percezione di sé e del proprio ruolo, scale dei valori, comportamenti e senso comune. Partiamo da qui, dalla durezza dei tempi e dalla consapevolezza del tanto che è accaduto, per fugare ogni lettura retorica e romantica della nostra azione e del nostro impegno. A chi – a ben guardare sperando che non ce la facessimo – è venuto in queste settimane affermando con sufficienza come non bastasse riproporre semplicemente il simbolo del Pci, noi abbiamo risposto con la politica là dove ci si attendeva paghi di agitare un feticcio, non cadendo nell’errore di una deriva identitaria, ma operando per realizzare una nuova presenza dei comunisti, una nuova idea, un nuovo progetto di società pretendendo -nell’occasione- di essere chiamati per nome e riconosciuti come tali. Noi camminiamo con un cuore antico, su gambe mosse dalla passione che ci deriva da un grande patrimonio ideale e politico, ma coi piedi ben piantati nel presente e lo sguardo rivolto al futuro.
Eppure, quanto accaduto in Toscana rappresenta a suo modo una svolta. In un Paese stretto nella morsa del massacro sociale (dopo quello sanitario), dell’aggressione politica e culturale di una destra pronta a saldare nuova rabbia sociale e vecchie pulsioni antidemocratiche, non basta più definirsi genericamente di sinistra; servono i comunisti. Sui temi dell’acqua, della siderurgia, della portualità, sui nodi del credito, della formazione e del sostegno ai bacini delle eccellenze artigianali, sulle questioni della sanità, sui temi di un controllo democratico dei molti (troppi e potenti!) enti e società di secondo grado che è necessario ricondurre alla gestione diretta dei Comuni e in via più stringente alla verifica democratica dei Consigli Comunali (a partire dall’immensa partita economico-ambientale dei rifiuti), sulle politiche dell’accoglienza e su quelle di una nuova partecipazione, sui temi dell’innovazione tecnologica e del mantenimento dei livelli produttivi e dei diritti acquisiti nel settore manifatturiero e nei servizi; serve uno scatto nuovo perché tutto non si riduca a sbiadito solidarismo, a politica compassionevole, a rendita politica e finanziaria di lobby locali o trasversali (per provenienza ed ispirazione) tenute insieme da interessi di gruppo e di cordata. Serve tornare a dare spessore alla rappresentanza e concreta traduzione alla sovranità. Servono, appunto, i comunisti. Serve recuperare, soprattutto in terra di Toscana, l’ambizione che un tempo illuminò coraggiosamente l’azione del Pci; l’azzardo virtuoso che puntava non semplicemente ad amministrare, ma a governare il territorio/i territori. Ad allargare gli spazi di inclusività sociale, a dare voce “ai piccoli” e “ai deboli”, ai lavoratori, alla parte migliore, avvertita ed attiva del tessuto democratico. Serve coerenza nei comportamenti, una politica riconquistata all’idea di essere vissuta come militanza disinteressata e servizio, una politica che torna ad essere sangue vivo, arrabbiature (se necessario), passione intellettuale e sacrificio vissuto non in nome della gente ma con i cittadini veri e vivi, i lavoratori sui luoghi di lavoro, i ragazzi e le ragazze ripiegati nella vita surrogata di relazioni telematiche e virtuali, smarriti in periferie talora orribili, deprivati di futuro e speranza. Una politica che non promette ma fa, che non urla ma ascolta e produce luoghi ed occasioni di confronto per convincere. Una politica che fa quello che dice partendo dalla fermezza dei principi a partire dalla difesa del patrimonio dell’antifascismo; dalla ricostruzione di una lettura critica delle relazioni sociali e umane e di un presente che nel mentre rivela aspetti feroci e sempre meno equi, viene presentato come l’unico possibile; dalla riproposizione dell’organizzazione della classe e di una lettura di classe del conflitto. Per questo, prima di tutto per riportare al centro della vita regionale e nazionale i temi del cambiamento necessario e possibile, i temi di una controffensiva democratica da ricostruirsi non in via predicatoria e pallida (quella delle buone intenzioni e delle anime belle), ma a partire dai temi della trasformazione socialista, ci siamo battuti per riportare il simbolo del Pci sulla scheda elettorale. Altro che sognatori e patetici nostalgici! Siamo la vera novità di questo passaggio elettorale, sapendo come contro noi si muovano interessi diversi e potenti tesi a ignorarci sul terreno mediatico e dell’informazione, a cancellarci sul piano politico e su quello culturale nell’intento di confermare la realtà delle cose come strutturalmente non modificabile, immutabile. Il solo fatto di essere riusciti (con fatica, pazienza, chilometri fatti e tanta discussione) a presentarci -sia detto subito, sia detto ora prima del voto- è di per sé elemento di vittoria politica; risposta alle incertezze di molti. L’aver colto questo obbiettivo avendo dato vita ad una stagione di forte mobilitazione e diffusione delle nostre proposte, è già la nostra campagna elettorale. Lo svolgimento di decine di banchetti, lo svilupparsi solidale di un’azione di raccolta dove in campo regionale tutti e insieme si è accorsi dove il nostro insediamento era più debole per superare difficoltà e falle, è stata una straordinaria palestra di formazione politica, di messa alla prova dei gruppi dirigenti, di pedagogia fattiva non solo circa la costruzione immediata del partito, ma anche circa il consolidamento della comunità dei compagni e delle compagne. Nulla, infatti, come il condividere speranze e dubbi, sacrificio e dolore, il peso di un comune agire cosciente e responsabile, dà ragione e significato ancora nel terzo millennio a “La città futura” di cui scriveva Antonio Gramsci.
In questi giorni un giovane compagno mi si è avvicinato con gli occhi colmi di soddisfazione dicendomi “siamo stati bravi, eh?”, in cerca, di pari entusiasmo nei miei. “Sì, abbiamo combattuto, con passione e fatica -molta- facendo semplicemente il nostro dovere di comunisti”, ho risposto. “Il nostro dovere verso i lavoratori e questa terra, tessendo nuova speranza”. Sul subito mi è parso che un’ombra gli attraversasse lo sguardo, quasi attendesse da parte mia un slancio più liberatorio e meno ragionato. “Sai, io sin da ultimo non credevo ce la potessimo fare”, ha quindi aggiunto con tono più impostato abbassando gli occhi. Ed io di nuovo.“Tu dov’eri in queste settimane?”. “Ai banchetti. Coi compagni. A raccogliere le firme e a parlare con la gente”, ha replicato. “Bravo. E’ quello di cui c’era e c’è bisogno, per far crescere il partito e far conoscere le nostre idee”. A quel punto ha atteso in silenzio qualche secondo. Poi s’è alzato dando segno di aver fretta di andarsene, convinto che non avrebbe guadagnato nessun ulteriore apprezzamento. In quel momento mi sono alzato anch’io. “Vieni qui. Dove vai…”. L’ho abbracciato. “Sì. Siamo stati bravi, ma non vantiamocene. Guai attardarsi. C’è la campagna elettorale da affrontare, il tesseramento da curare, la campagna sulla sanità; sempre con uno sguardo alla semina lunga, al progetto di ricostruzione del Pci che è ciò che vale e conta di più, poiché le elezioni passano, il partito resta.” L’ho lasciato intuendolo preso da una fierezza muta raccontata dalla sua stretta di mano dura, prolungata. “E’ vero. Nonostante i tempi e persino i limiti che per loro parte debbono ancora superare lungo il cammino, capita che i comunisti siano ancora bravi a fare cose difficili”, ho pensato. “E’ la forza di ciò in cui crediamo che ci spinge a lottare per un mondo nuovo senza arrendersi mai. E’ ciò che ci distingue quando reclamiamo di non essere genericamente definiti di sinistra, ma chiamati comunisti.” Ho alzato lo sguardo. Il giovane compagno era già lontano.
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